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Martedì, 30 Dicembre 2014 NEWS
  
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La Cina non ripartirà senza riforme strutturali

Nell'era della crisi finanziaria globale è stata il driver della crescita mondiale, ma ora la Cina sa bene che il 2015 per il Paese sarà un anno all'insegna dell' infausto numero 7. La China' s Central Economic Work Conference, l'evento annuale che fissa i target-chiave dell'economia cinese ha detto che la crescita del 2015 sarà contenuta entro il 7 per cento. L' obiettivo della seconda potenza globale che si avvia a diventare importatore netto è strategico: una crescita più lenta serve a fare le necessarie riforme e a permettere al Paese di modificare il modello di crescita, peraltro in un contesto dominato da una stagnazione generalizzata della domanda estera. Russia, Giappone, Europa versano in cattive acque, nel GuangDong, dunque, si profilano altre chiusure di fabbriche a raffica. Considerando il teorema Ocse, secondo cui una riduzione della domanda cinese di 2 punti in due anni ridurrebbe il Pil mondiale annuale di 0,3 punti, nel 2015 il Pil cinese crescerà di "soli" 1,2 miliardi di dollari. È pur sempre un terzo della crescita del Pil mondiale contro il 22% degli Stati Uniti, ma quel sette per cento è meno del 7,4 del 2014, il che dopo vent'anni di corsa a doppia cifra sembrano davvero peanuts, noccioline. La produzione industriale frena ormai da mesi, al pari degli investimenti, al minimo dagli inizi del terzo millennio, l'inflazione è stabile. Il real estate è congelato, l'industria delle costruzioni pure. Non è uno scenario idilliaco. Eppure nel 2014 la Cina ci ha provato a fare le riforme, voto: sette, poco più della sufficienza, come per uno scolaro svogliato che l'anno prossimo potrà fare di più, impegnandosi. Il terzo Plenum ha fissato i 16 filoni chiave delle rifome: com' è andata? Iniziamo dal credito e dalla finanza, ovvero dall'ossigeno per l'economia: la Banca centrale di Zhou Xiaochuan ha tagliato i tassi a novembre per la prima volta in due anni, è pronta a mettere mano al coefficiente di riserva obbligatoria delle banche, quei ratios cinesi bassissimi, per stimolare il sistema bancario al quale però non ha lesinato una dote da 500 miliardi di yuan. Zhou ha avviato a fine novembre la sospirata manovra sull' assicurazione dei depositi bancari entro il tetto dei 500mila yuan, necessaria a procedere alla liberalizzazione dei tassi, ha reso più semplici le procedure per gli investimenti stranieri ma anche le autorizzazioni per chi vuole investire all' estero in linea con la strategia Go Global. Ha dichiarato lotta allo shadow banking che però, come ripetono gli stessi economisti cinesi, ha contribuito indirettamente alla stessa riforma del credito. Ha avviato la sperimentazione dello spinoso tema dei bond locali. Ma quando il Governatore ha dichiarato che i corporate bond (che in Cina non falliscono mai, eccetto Chaori Solar, un caso rarissimo e, per questo, citatissimo) non possono più essere emessi come collaterali a garanzia di altri debiti, la borsa di Shanghai è crollata del 5,4 dopo aver sfondato il giorno prima il tetto dei 3mila punti interrompendo una cavalcata trionfale durata in tutto il 2014. Aziende ed enti locali i cui debiti sono in scadenza a fine hanno sono andati in tilt. Il 2014 è stato anche l'anno in cui nonostante le proteste di Occupy Central per una maggiore democrazia a Hong Kong (altra bomba politica come la caduta del Governo taiwanese "amico" di Ma Yeong-Ji), il 17 novembre è partita la Stock connection tra le borse di Shanghai e Hong Kong. Esperimento ancora sotto esame visto che ha favorito la prima a discapito della seconda. Per giunta in mainland China la riforma delle Ipo stenta a decollare e il 2014 sarà ricordato come l'anno del botto di Alibaba, non certo a Hong Kong né a Shanghai, ma a Wall Street. Come alimentare le aziende che soffrono per il calo della domanda straniera senza stroncare nella culla anche la timida domanda interna? Lo stimolo all'economia basato su più credito e più investimenti poco centrati alimenterebbe il deficit locale. Le borse cinesi ci scommettono, ma i vertici di Pechino no. I soldi ci sono, vanno messi al punto giusto. E l' internazionalizzazione del renminbi associata, ovviamente, alla diversificazione delle riserve? Il 2014 è stato l'anno dei clearing a raffica, Londra, Francoforte, Montreal, Nuova Zelanda. Ma senza riforme trasparenti il renminbi che tra l'altro ha perso il 2.1 sul dollaro sarà solo oggetto di speculazione mentre lo shift rispetto agli investimenti in titoli di Stato Usa si è rivelato piu' difficile. In Cina i redditi non aumentano, ma il costo del lavoro sì, e la forza lavoro invecchia. Le uniche province (un sesto sul totale) che non soffrono devono ringraziare i fondi del piano Go West. La sovracapacità non è stata contenuta, basta guardare alla mina vagante pannelli solari. La capacità individuale di spesa, invece, cresce solo nelle aree sviluppate, nello Zheijiang con 14,2 è sette volte rispetto a Chongqing. La revisione del Pil includendo un ricalcolo dei servizi non basterà a far tornare il buonumore, la conferenza di fine gennaio allo State Council dell'Istat cinese sarà il vero banco di prova perché, per il terzo anno consecutivo, è stato calcolato il Gini factor, il coefficiente che misura il divario tra ricchi e poveri e che dovrà dire se lo squilibrio vero tra ricchi e poveri si è ridotto o no.